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al testo di Adielle
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La prosopopea tipica di chi crede di essere qualcosa magari fosse che lo sappia con certezza, mi infastidisce io, con la mia deformità quasi perfetta di non essere niente forse m' illudo di saper suonare certe parole come Fresu ma mai ne ho certezza. Questa è terra del dimenticare, finzione di partenze di chi non se ne vuole andare mai veramente. E le distanze rappresentano quelle tregue che ci siamo dati dal conoscere. Per noi stessi, dagli occhi quasi fusi con le immagini cerchiamo certi silenzi che ci sappiano raccontare. E cos'è l' amore e dove finiremo poi e le altre mille domande che affollano la mente trovano risposte inaspettate in uno squillo di tromba o in un fiore che sboccia dove a morire si farebbe prima e meglio un soffio di vento per cui ti alzi il bavero del cappotto quando di notte torni a casa e sai che non ci sarà più lei ad aspettarti in piedi. Alzata sulle sue quattro vertebre allenate alle attese infinite con le braccia conserte appoggiata allo stipite consorte di tutti quegli inverni in cui non hai saputo scaldarla. Questa retorica stringente è l' alibi che mi fornisco per dare un senso d' appartenenza alla mia solitudine. Vincolarla a scelte individuali pur di sconsacrare la sua aura mitica. Renderla meno irrevocabile di un perenne addio. Lungo la fiancata di questo tempo che scorre non compaiono mai i nostri nomi insieme, vicini. C' è chi giurerebbe che non ci siamo mai incontrati. Passeggeri di versi sbagliati con la stessa rima: fine.
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